Quest’anno il pandoro si sta prendendo una silenziosa rivincita sul panettone, non solo in Italia ma anche negli Stati Uniti, il New York Times gli dedica un lungo articolo, riconoscendone il fascino austero e la complessità tecnica che oggi seduce alcuni tra i migliori artigiani del mondo.
Da qualche tempo, anche negli Stati Uniti, il Natale artigianale parla quasi esclusivamente la lingua del panettone. Un tempo iniziato nel 1995, quando Jim Lahey, fondatore della Sullivan Street Bakery di New York, innescò una vero e proprio “affair nazionale” con il grande lievitato milanese, rigorosamente privo di additivi, leganti e scorciatoie industriali. Oggi, trent’anni dopo, quel racconto natalizio americano sembra pronto ad accogliere un protagonista più schivo, infinitamente più difficile, il pandoro.
Tratteggiato come il “cugino più raro e ostico” del panettone, nasce a Verona, ne condivide gli ingredienti di base – farina, burro, uova, zucchero, lievito, vaniglia – ma se ne distanzia per essenzialità e rigore. Niente uvetta, niente canditi, nessuna concessione decorativa. Solo una massa burrosa, compatta, racchiusa in uno stampo stellato a otto punte che, negli Stati Uniti, resta ancora un oggetto quasi esoterico.
Se il panettone contemporaneo, soprattutto nel circuito artigianale internazionale, ambisce a essere una cattedrale alveolata, sempre più alta e ariosa, il pandoro procede in direzione opposta: una mollica fitta, regolare, tendente alla brioche, di una purezza quasi ascetica. Ed è proprio questa apparente semplicità a renderlo, per i grandi pasticceri, una sfida al limite dell’umano.
«È un’emulsione di grassi, zuccheri e acqua che dovrebbe lievitare naturalmente. Non dovrebbe funzionare», spiega Roy Shvartzapel, fondatore del marchio californiano From Roy, celebre per panettoni da collezione (109 dollari l’uno, quest’anno) e ora deciso a scommettere sul pandoro. Un azzardo condiviso anche da Pierre Hermé, che il New York Times incorona senza mezzi termini “il Luigi XIV della pasticceria francese”: dopo anni di prove, Hermé definisce il pandoro «ancora più intrattabile del panettone. Il pandoro è una nuvola».
Negli Stati Uniti, la produzione resta microscopica. Il giornale racconta come la famiglia Settepani, con le sue tre bakery tra Brooklyn e Harlem, sia tra le pochissime realtà a proporlo: 4.000 panettoni contro appena 100 pandori a stagione. «È il dolce che non riceve mai abbastanza attenzione», racconta Bilena Settepani. «Eppure è più bello e più versatile». Lo suggerisce con marmellate, creme al pistacchio, gelato, vin santo, persino come sostituto dei savoiardi nel tiramisù.
Ma il vero nodo, per il New York Times, è culturale prima ancora che tecnico. Negli Usa il pandoro arriva gravato dall’eredità dell’industria italiana: oltre il 90% dei pandori in commercio, ricorda Shvartzapel, è prodotto mesi prima, additivato con mono- e digliceridi e progettato per durare fino all’anno successivo. Anche le normative italiane, pur fissando parametri ufficiali, ammettono conservanti e vanillina, regalando a molti pandori una mollica giallo artificiale e una longevità sospetta.
La vera idea di pandoro, invece, secondo i panificatori americani citati dal quotidiano, è opposta: effimera, fragile, non pensata per sopravvivere. «Non è fatto per durare», dice Bilena Settepani. «È dove il panettone era negli anni Ottanta: una produzione minuscola, quasi intima».
Così, il pandoro diventa un simbolo affascinante e quasi controcorrente: un dolce che rifiuta l’idea di performance, di marketing, di eternità sugli scaffali. Un lievitato che scompare in bocca prima ancora di essere compreso fino in fondo. E che, proprio per questo, sembra pronto a conquistare – lentamente, ostinatamente – anche l’immaginario americano.






