Al tristellato di Firenze, Monco, Della Tommasina, Tomberli riscrivono l'iconografia della grande maison a tre Stelle Michelin preservandone il dna mitologico
Lo scorso dicembre, ai British Fashion Awards 2022, è stato conferito il premio di Designer of the Year a Pierpaolo Piccioli, direttore artistico della Maison Valentino, che ha commentato così “La sfida è quella di mantenere l’autenticità e l’identità del linguaggio della moda, valorizzando i codici della Maison e il suo DNA”. Qualche giorno dopo, si svolgeva la nostra cena da Enoteca Pinchiorri e il parallelismo è scattato in automatico, il lavoro compiuto da Riccardo Monco, Alessandro Della Tommasina e Alessandro Tomberli nella grande maison della cultura gastronomica mondiale è innegabilmente comparabile a quello dello stilista.
Come Piccioli ha preso le redini di uno dei marchi storici più celebri al mondo, rendendolo oggi un simbolo del fashion contemporaneo anche fra la generazione Z, motivo per cui è stato premiato, lo stesso Monco è riuscito a riscrivere l’iconografia dell’Enoteca evitando mirabilmente il passatismo. Il compito è senza dubbio arduo, quando ci si ritrova a maneggiare identità così definite e di successo, accompagnandole per un lungo periodo nella costruzione del proprio immaginario, si rischia di rimanere intrappolati nel gorgo della celebrazione del passato. Sebbene in questo caso parliamo di qualcosa di glorioso. È l’inizio degli anni ’70 e Giorgio Pinchiorri, giovane sommelier modenese, e Annie Féolde, da poco arrivata a Firenze da Nizza, si incontrano e iniziano a lavorare presso quella che allora si chiamava Enoteca Nazionale. Una cantina di vini italiani e qualche tavolo al piano superiore dove la giovane cuoca francese prepara stuzzichini da abbinare alle degustazioni. Una decina di anni dopo Giorgio rileva il locale, ottenendo subito la menzione sulla Guida Michelin, che nell’’82 si trasforma in stella e l’anno dopo diventano due. Fino al raggiungimento del massimo riconoscimento nel 1992 con l’arrivo del terzo macaron, che purtroppo non fanno in tempo a celebrare perché, qualche giorno dopo, un incendio distrugge la cantina e da quel momento si avvia un periodo buio per il ristorante. Ma nel 2004, unico caso al mondo, la Rossa conferma nuovamente la terza stella, dopo averla precedentemente tolta qualche anno prima. Con l’arrivo ai vertici della cucina di Riccardo Monco, oggi socio insieme al direttore di sala Alessandro Tomberli, prende il via l’evoluzione di una identità esteticamente perfetta verso una contemporaneità che la preservi senza farsi fagocitare da imposizioni.
Appena festeggiati i cinquant’anni, si può affermare che l’Enoteca Pinchiorri si evolve in un continuo dialogo ideale fra i valori e i codici fondanti di una leggendaria cucina haute couture e vibes contemporanee, dove per la ricodifica dell’identità si parte dalla cristallizzazione della memoria e si alimenta un costante moto evolutivo che innova.
Qualche mese fa, le sale sono passate attraverso un restyling raffinato che ne ha impreziosito alcuni angoli con l’aggiunta di boiserie in legno, elementi in marmo nei toni del porpora, un’intera parete di cristalliere. Ambienti avvolti in un’atmosfera che emana fascino allo stato puro. In cucina un paio di decine di ventenni, o poco più, si muovono quasi felpati, i visi imberbi sotto le toques blanches e gli sguardi limpidi e zelanti, bramosi di apprendere a tutto spiano. I loro omologhi in sala, sembrano fluttuare mentre porgono al tavolo il lunghissimo collo dei decanter con una delicatezza e un savoir-faire che incantano, intrattenendoci con racconti e aneddoti sui vini e sulla cantina epica, da cui emerge profonda competenza narrata con un registro leggero, amabile, talvolta ironico. Un vero e proprio lavoro di atelier, come nelle grandi maison di moda, espresso attraverso una coralità fresca ed elegante informalità.
L’incipit è umami tout court, con la frittella di parmigiano reggiano e tartufo bianco di San Miniato, che subito dopo si sintonizza sulla virata acidula di una zucca in carpione, servita su un supporto ricavato da un trancio di zucca, quando la natura esprime più eleganza di qualsiasi materiale di pregio.
E il benvenuto nel calice è di Bollinger La Grande Année 2014.
Una delizia la ciambella di cavolo nero, ammorbidito nell’amarognolo da una crema di tamarindo e i gamberi di fascina fritti a scoppiettare di croccantezza.
L’anguilla laccata in brodo di sedano rapa, beneficia della consonanza aromatica del ginger fresco, foglie di senape, gelsomino e dell’apporto iodato del caviale
L’accompagnamento è con Domaine des Comtes Lafon Meursault Désirée 2019.
È insuperabile la suadenza collagenica della trippa di seppia marinata in latte di parmigiano reggiano 24 mesi, con l’aggiunta di polvere di limone fermentato per i picchi sapidi.
I ravioli di grano arso sono scottati, non bolliti, hanno una farcia di scarola e mascarpone dall’impronta comfort e vengono avvolti da una schiuma di aringa affumicata e bottarga di muggine. Dal fumo, all’amaro, al sapido tutti i sapori contemplati si presentano distinti, uno a uno.
Per aizzare alla scarpetta, viene servito solo con la forchetta l’astice al ginepro, immerso in una zuppetta di mandorle e olive celline, con un trancetto di topinambur marinato al bergamotto a sgomitare per l’acido e finte olive ripiene di riduzione di astice, modello cacciucco, ma solo del crostaceo, potenzia il gusto.
Le magnifiche pappardelle “mare, monti, colline” sono servite con un pesto di fegato di calamaro essiccato e polverizzato, estratto di pepe bianco e zafferano. Una sfoglia ineguagliabile, dove scioglievolezza e morso trovano il punto di incontro millimetrico, dilettandosi fra pungenza e amari.
Le chicche di zucca arrosto sono senza farina o gelificanti, si prepara una sorta di purea del vegetale molto concentrata e densa, si aggiunge amido di mais e si fanno addensare a una temperatura di 75°. La consistenza è unica e incomparabile a qualsiasi altra, vengono serviti con crema di stracchino di pecora, mostarda di pere, tartufo bianco di San Miniato.
Nel calice arriva un Chambolle-Musigny 1er Cru Les Hauts-Doix Groffier 2019
È una convincente estetica dell’esotismo ad avvolgere le chiocciole vignaiole al verde e porri alla brace, a cui si accompagna una mousse di avocado leggermente piccante, ghiacciata, per la scossetta termica, una salsa al cocco e lime con olio al cipollotto. A completare una foglia di aglio nero fermentata.
Una preparazione che dura tre giorni e che beneficia della vocazione di Alessandro Della Tommasina per la cacciagione. La favolosa sella di lepre fondente è farcita del suo salmì, viene servita con cime di rapa leggermente piccanti che ne punzecchiano la rotondità e con una cialda di cacao che sorregge alcuni canditi di arancio. Sapore impetuoso, opulento e pregno da accompagnare a una finissima purea di mela cotogna.
Il vino è Pauillac Château Mouton Rothschild 1er Grand Cru Classé – Baronne Philippine de Rothschild 2005.
Il leggendario carrello dei formaggi, con una scelta che spazia fra un grottato friulano, una robiola di capra in foglia, una sola di pecora, o una peccaminosa fonduta con tartufo bianco, precede la nostra visita in cucina. Qui gli chef ci propongono un assaggio in anteprima di un gelato di radice di liquirizia dall’aromaticità freschissima.
La vera parte dolce della cena, curata dal pastry chef Francesco Federici arriva poi al tavolo, prima con un succo di melagrana ghiacciato appoggiato a una gelatina di mandarino, con salsa al malto d’orzo. Per poi culminare in una sontuosa madeleine, con crema e sorbetto al limone, cioccolato bianco, meringa all’italiana e limone candito.
Il calice accoglie Sauternes 1er Grand Cru Classé Chateau Rieussec 2019.
Come piccola pasticceria, uno spicchio di gelatina all’arancia, un tartufino liquido al pistacchio e un cannolo di rapa ripieno di crema di gianduia che prelude al pirotecnico carrello del cioccolato.