Nella videointervista Lorenzo Vecchia di Ahimè racconta come cogliere il meglio degli ingredienti nell'attimo in cui la natura li mette in scena
Quando si sente raccontare Ahimè di Bologna, si percepisce tutto l’impegno del narratore nel ricercare il termine più calzante per definirlo, da “moderna trattoria”, a “ristorantino”, al più forbito “esempio eccellente di bistronomia”, o al manageriale “locale trasversale”, fino all’affettuoso “posticino”. È vero che bisogna dare un nome alle cose, ma, come diceva Platone nel Cratilo, suppergiù duemilaquattrocento anni fa, poiché i nomi sono assegnati in modalità del tutto arbitraria, per conoscere le cose è meglio rivolgersi all’essenza delle cose stesse e non ai loro nomi. Non sempre è da ricercare la casella già esistente dove racchiudere una idea nuova, una definizione specifica che ne spieghi la semantica, il bello di certi concetti sta proprio nel saper sguisciare dalle etichettature. Nessuna etichetta quindi per il locale di Via San Gervasio 6, quelle lasciamole alle bottiglie dei vini, in bella mostra sugli scaffali, in prevalenza naturali e bio, con il prezzo ben visibile, in ordine crescente, come nella carta delle bevande.
Lo spazio è frutto di una sottrazione accuratamente eseguita, dettata dall’armonioso incontro di un senso etico ed estetico convinti e profondi, concretizzato in una semplificazione delle forme, geometrie e colori primordiali, del legno lasciato al naturale. Una manciata di tavoli, un bancone vista cucina e un banco con affaccio sulla via, gli interni emanano un senso di leggerezza ed essenzialità. L’uso ridotto di materia e oggettistica, la scelta del plastic-free sono finalizzati a rafforzare la sintonia e il rispetto dell’ambiente, rientrando in una filosofia di decluttering estetico.
In cucina è un frullare di pensieri liberi e idee seduttive da parte dello chef e co-proprietario Lorenzo Vecchia, trentunenne, lombardo, dopo esperienze da Antonia Klugmann, Berasategui e Cogo, apre il suo Volm, in provincia di Milano per poi approdare nel 2020 a Bologna per questo nuovo progetto.
Come ci racconta nel video
Inizialmente doveva essere una consulenza, poi la decisione di diventare uno dei soci, insieme a Lorenzo Costa, cresciuto nel ristorante di famiglia, il Battibecco, oggi prolifico animatore della scena gastronomica bolognese. Con loro Gianmarco Bucci, emiliano con esperienze a Londra, che conduce la sala e Federico Orsi che fornisce vini biodinamici, vegetali e alcune carni direttamente dal suo Orsi Vigneto San Vito, azienda dedita alla viticoltura sostenibile, orticoltura, cerealicoltura e all’allevamento di maiali di Mora Romagnola in Valsamoggia.
Sono appunto i prodotti, le materie che arrivano dall’orto di Orsi e da altri piccoli produttori che plasmano il menu, sempre unico e fisso, ma che varia spessissimo, per tenere il passo con il raccolto che si presenta stagionalmente in cucina e che comanda su tutto. Ecco che qui per tenere il passo in modo proficuo serve uno slancio creativo che vada all’impazzata, checché ne dica il guru della psicologia organizzativa, Adam Grant, sostenitore della lentezza come propulsore della creatività. E chef Vecchia eccelle proprio in questo, il suo talento scattante e la sua velocità di pensiero, sostenuti da una pragmatica riverenza per la natura, riescono a fargli ccgliere il meglio delle materie, nel momento in cui entrano in scena. Così Ahimè è diventato uno dei migliori luoghi del cibo di Bologna e, cosa non da poco, senza tortellini. Cinque portate selezionate dalla cucina, più il pane 55 Euro, o tre portate a 35, un rapporto qualità-prezzo che ha valso la menzione di Bib Gourmand nella guida Michelin, con allegata Stella Verde per l’approccio sostenibile. In sala, le parole chiave sono informalità e leggerezza, accanto a Bucci, l’altro Gianmarco, con Le Calandre fra i punti fermi del suo curriculum.
Il pane, viene considerato una vera e propria pietanza, apre il menu con un burro al limone.
Un’ostrica del Delta del Po, carnosa e dalla salinità smussata, si attornia della freschezza vegetale del cetriolo, pizzicato dalle aromaticità di prezzemolo e dragoncello. Con la mandorla che sa arrotondare con l’amaro.
La dolcezza in consistenza melliflua arriva dalla tartare di gamberi viola, immersi in un gazpacho con foglie di acetosella.
Uno dei più riusciti spaghetti freddi in circolazione, avvolti dalla dolcezza esotica del cocco, con l’urto di un travolgente curry verde ai crostacei e la foglia di fico che si trattiene persistente sul finale.
Le mezze maniche, con l’umami congiunto di miso e parmigiano, punti dal pepe lungo rappresentano il comfort, ma di carattere.
La lattuga è marinata fino a raggiungere una consistenza lasciva e viene servita con susine e salsa all’aglio.
Il classico poulard albufera viene declinato sulla faraona arrostita, accompagnata dalla salsa francese, punteggiata di senape. Con la provvida nota vegetale degli spinaci freschi, con uvetta e pinoli.
Goduriosi e immediati i dessert, come la mousse di cioccolato con albicocche e germogli di abrotano, fra il citrico e il sentore di vermouth. E il buono atavico di fragole, meringa, limone.