Una cucina che ha fatto del recupero il tratto distintivo di Tèrra, al pari di un servizio di sala di charme, un progetto che una certa critica danese redarguisce
Osservando le numerose biciclette accostate ai muri della Ryesgade, ne scorgiamo diverse senza lucchetto. Siamo sulla via di Copenaghen un tempo costeggiata da case popolari che oggi ha tutto il fascino della multiculturalità, con i suoi ristoranti e negozi, un tempo principalmente di antiquariato. Di cui è rimasta qualche insegna e un mercatino che si svolge nel quartiere quattro volte l’anno. Qui da sette anni, tutti i giorni Valerio Serino e Lucia De Luca aprono le porte del loro ristorante Tèrra. Con un tasso di dedizione altissimo, che combina studio sull’uso totale della materia prima, selezione e sviluppo dei legami con fornitori, staff e collaboratori, mirato a una prospettiva condivisa il più possibile etica. E sono questi principi che hanno portato all’assegnazione della stella verde Michelin nel 2021.
L’ambiente è raccolto e molto intimo, di uno stile essenziale, pareti e arredi grigio scuro, luci soffuse, una raffinatezza minimal che lascia la scena alla cucina, l’area più luminosa e totalmente aperta, da mirare dalla sala attraverso la balaustra, quasi come da un palchetto a teatro.
Valerio e Lucia, romani, si trasferiscono nella capitale danese, lei nel 2011, un anno prima di lui per frequentare un master dopo gli studi da designer, lui appena lasciata la compagnia aerea dove lavorava, per dedicarsi insieme a progetti pregni della loro passione, il cibo. Valerio inizia a lavorare in cucine di alto livello come il Kanalen e l’Amas, dopo circa tre anni prende vita Il Mattarello, al mercato coperto di Torvehallerne, dove si produce e si cucina pasta fresca biologica, accompagnata da vini scelti con oculatezza.
Qualche anno dopo si aggiunge Tèrra, la cui cucina si sostiene su un pensiero limpido, l’utilizzo il più integrale possibile delle materie prime. In una pratica virtuosa che interviene prima che ci sia lo spreco, da rimediare postumo con il ri-uso. Quindi riflessioni profonde sull’ingrediente e creatività a briglia sciolta per limitare gli scarti tenendo il focus sull’esaltazione dei sapori. Questa è anche la filosofia dell’associazione Tempi di Recupero, di cui il ristorante fa parte, che promuove il cibo buono e sostenibile nell’ambito di una visione consapevole del mondo, attraverso il lavoro di artigiani che condividono questi valori.
Che per lo chef Serino significa nel concreto una assidua ricerca di produttori delle zone limitrofe, fra aziende agricole biologiche. Da cui ad esempio arrivano i pomodorini, ripieni di umeboshi di fragola verde, cotti confit, insieme a chele di astice, peperoncini habanada basilico, aneto, in un gazpacho di susine mirabelle, elegantemente acidulo. O il sedano rapa del taco, in cui si combinano fette dell’ortaggio fritte a marinate che racchiudono una emulsione di salvia. Anche il pesce proviene da pescatori che pongono attenzione all’etica, vedi l’halibut delle fredde acqua norvegesi, che dopo essere stato salato e fatto riposare in frigorifero per una notte, viene cotto lentamente dal lato della pelle, per renderla croccante e umamica. All’interno vi si trova una porzione a cottura media e un’altra completamente cruda, in sintesi, tre consistenze diverse. Le parti meno pregevoli vengono ridotte ed emulsionate con olio di sambuco artigianale per realizzare una salsa di accompagnamento. Il piatto è completato da una susina mirabelle lattofermentata, un petalo di rosa in salamoia, una prugna conservata sott’olio trattata come un pomodorino secco, e un ravanello appena acidulo.
Poi ci sono le pratiche di conservazione, che rappresentano gran parte dell’avveduta operosità di Lucia e Valerio, è il caso dell’aringa preservata sott’aceto, ammorbidita nell’acidità da una purea di scalogno e dalla meringa su cui poggia. O dei petali di rosa raccolti durante la stagione di fioritura e poi conservati e utilizzati durante l’arco dell’anno che completano piatti come la crema cotta di cozze affumicate, in cui è immersa una coda di astice in shabu shabu e funghi shiitake.
La proposta di pasta non può mancare, ma tradotta con un registro cosmopolita, quindi i passatelli sono impastati con farina di castagna e alga kombu, serviti in brodo di anguilla. O meglio, delle parti di recupero dell’anguilla che, insieme alla rapa rossa, viene glassata con salsa teriyaki nello spiedino di benvenuto.
Da Tèrra la sensibilità al non spreco è palpabile in tutte le modalità di lavoro, naturalmente nei piatti, ma anche nelle bevande, come nei vari succhi di limone e salvia, nei tè al timo e bergamotto. O nei vermouth “casalinghi” ottenuti dalla fortificazione dei vini rimanenti nelle bottiglie, a cui vengono aggiunte foglie di fico; se si tratta di vini bianchi, si aromatizzano al rosmarino, per chiudere con una allure balsamica.
Poi c’è il servizio, Lucia, che avrebbe dovuto occuparsi di design nella vita, ha una dote naturale per l’accoglienza e il registro preciso e millimetrico per la narrazione e gli aneddoti che raccontano un piatto o un prodotto.
Insomma Tèrra è un progetto in cui tutto converge verso grandi soddisfazioni e apprezzamenti. Per quanto, a una seppur superficiale esplorazione della stampa gastronomica danese, si riscontra in generale approvazione per l’innegabile talento dei numerosi italiani impiegati in aziende autoctone, come sottoposti. Nel caso di Valerio e Lucia, imprenditori, titolari di un business, siamo incappati nella disamina di Søren Frank uno dei più influenti critici danesi, che lascia abbastanza basiti. Dove si leggono considerazioni del tipo Piatti microscopici… Un incubo rimasto a lungo in bocca… La padrona di casa ci ha ordinato di bere un sorso di vino tra ogni boccone. Come se non potessimo capirlo da soli… Condimenti grandi quanto capocchie di spillo… Mi sono svegliato nel cuore della notte e stavo morendo di fame, la prima volta, per quanto posso ricordare, che succede in quasi 30 anni in cui ho recensito ristoranti.
In questa analisi critica si pena parecchio a estrapolare la costruttività, che sicuramente è presente, in quanto per i grandi critici è sempre imprescindibile essere costruttivi nei confronti di chi lavora sodo e con impegno, solo che probabilmente è rimasta sepolta dalle acculturate considerazioni sulle dimensioni dei piatti e da una densa coltre che si fatica a non considerare asprezza.