Postrivoro mascherato. Chi c’era dietro le maschere e cosa abbiamo mangiato.
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Siamo andati a smascherare il primo Postrivoro mascherato. Tiger Man, Spider-Man, Zorro i protagonisti dichiarati e con questi presupposti non si poteva non essere presenti a sbirciare sotto le maschere.


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Siamo andati a smascherare il primo Postrivoro mascherato. Tiger Man, Spider-Man, Zorro i protagonisti dichiarati e con questi presupposti non si poteva non essere presenti a sbirciare sotto le maschere. Per scoprirlo il prima possibile si rendeva necessario partecipare alla prima rappresentazione, la cena del sabato sera. Attraversato il chiostro stranamente deserto di Borgo Durbecco, colmi di certezze, afferriamo la maniglia cigolante della porta della cucina e infiliamo l’uscio. La scena che ci si para innanzi è quella di una ilare congrega dalla quale in pochi secondi si disgrega un elemento che ci viene incontro, ci intima di non guardare e ci convoglia all’esterno.

Ma qualcosa abbiamo scorto. Nell’ordine, Filippo Marchi (Zorro) alla narrazione dei vini; Marco Carboni (Tiger Man) modenese, imprinting botturiano, prosecuzione didattica da Jamie Oliver e Gordon Ramsey a Londra dove conosce l’attuale moglie messicana, e insieme aprono Sartoria a Citta del Messico. ha portato l’emilianità della sfoglia e della pasta fatta a mano ad incontrare biblicamente la cultura gastronomica locale. Francesco Brutto (Spider-Man) ventinovenne trevigiano, vocazione vegetale corroborata dalla formazione con Pier Giorgio Parini. Si divide fra il suo Undicesimo Vineria, stella Michelin 2018 a Treviso, che conduce in solitaria (più un lavapiatti) e il Venissa, sull’isola di Mazzorbo (Ve), dove il fine settimana raggiunge, con la sua mini pilotina, la sous chef Chiara Pavan.

L’apertura di Marco Carboni evoca il ceviche, ma in realtà il trancio di branzino selvaggio non è reduce da nessuna lunga marinatura, la incontra nel piatto. È il Leche de Tigre, la marinatura classica del ceviche peruviano, qui in una versione mediterranea che gioca sulla balsamicità di quattro tipi di basilico, prezzemolo, e polvere di dragoncello, leggermente piccante. La parte grassa è data da una crema di avocado, olio d’oliva e pepe. Per dare croccantezza viene aggiunto un carpaccio di jicama, una rapa messicana che si esalta con il limone, quindi perfetta per il ceviche.

L’esordio di Francesco Brutto è appannaggio dall’amaro del radicchio trevigiano macerato, accompagnato dal litchi, accentuato nel suo aroma di rosa da un talco alle rose. Una consistenza lasciva, con rimbalzi alterni fra amari e acidi e una persistenza finale alla rosa.

Volge al botanico la razza dello chef di Undicesimo Vineria, galvanizzata dal registro erbaceo di bietola e ortensia e ispessita nella sua componete iodata dalle alghe.

Un tamal che è meglio definire está mal perché è un tamal sbagliato, sostiene chef Carboni, che vira al soufflé, fatto con il mais morado (viola) di Guerrero e accompagnato da una spuma emiliana di parmigiano, noce moscata e lardo. Il tutto cotto dentro una foglia di banano nel forno a vapore e impiattato coprendo con una foglia di hoja santa, pianta messicana dai sentori di pepe, anice e finocchio.

I tortelli di faraona di Marco vengono irrorati da un brodo costruito su tre livelli. Partendo da una base tutta emiliana di brodo di cappone e croste di parmigiano, procedendo verso oriente creando una sorta di dashi con l’aggiuta di katsuobushi e alga kombu per pressare sull’umami e chiudendo con tre chili messicani, non piccanti, come guajillo, pasilla e ancho per apportare dolcezza. La faraona del ripieno viene cotta confit nel suo grasso e nel grasso di cappone, vengono aggiunte erbette e tartufo nero per creare in parte una mousse e in parte una battuta al coltello per mantenere una certa testura.

I tortellini avvoltolati in una suadente doppia panna, iniziano a far roteare, a contatto con le papille, varie e differenti note acide sprigionate del ripieno al tamarindo fermentato contrappuntate dall’amaro erbaceo dell’angostura. In un eco tenace acidulo e amarognolo, arrotondato dalla panna. Già piatto firma di Francesco Brutto.

Segue il topinambur del neo stellato veneto, potenziato nel carattere terroso dal sapore deciso del pu’ er, il tè rosso fermentato e invecchiato dello Yunnan, con l’amaro spalleggiato dal cavolo nero e noci sbriciolate dalla gestualità coreografica del giovane chef.

La chiusura è a sorpresa in cucina, con i commensali riuniti intorno al passe per un dessert che traghetta tutti nell’atmosfera prismatica dei favolosi eighties. L’ananas flambé. Ma prima una dichiarazione shock da parte di uno dei padri della gozzoviglia più hip d’Italia. ”Questo è stato un Postrivoro speciale, non solo per gli chef mascherati, ma perché è l’ultimo. Sì abbiamo deciso dopo sei anni di fermarci.” Ma poiché quella sera nulla era come sembrava, abbiamo fatto bene a non crederci. Prossimo appuntamento a febbraio.


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