LAB 2023. Mauro Uliassi inverte la definizione di alta cucina in cucina alta
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È il ventesimo LAB di Mauro Uliassi e sono sempre più vivide le repentine folgorazioni di ingegno, le illuminazioni istintive e le sensazioni oniriche che genera


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Diventato icona totemica dei cambi menu, il LAB di Mauro Uliassi non allenta di un millimetro in termini di irrepitibilità.
La scia di fascinazione che ogni primavera, dal 2002, rilascia il nuovo menu LAB dello chef senigalliese, come la curiosità durante l’attesa del suo svelamento, è appannaggio di pochissimi altri ristoranti in Italia. Ma potremmo anche spingerci ad affermare che si tratta di un caso unico. E sebbene quest’anno siamo al LAB numero venti, non si sono minimamente appannate, ma nemmeno lievemente affievolite, le repentine folgorazioni di ingegno, le illuminazioni istintive e le sensazioni oniriche che generano questa prodigiosa sfilata di piatti durante i quaranta giorni della loro gestazione. Quando avviene il grande brain sailing, come lo ha definito Uliassi veleggiare con il pensiero, cambiando rotta ogni volta che vogliamo fra la brigata al completo, chiusa in cucina a sperimentare per ore. Come ci racconta nel video, sempre con il consueto tono avvincente e passionale.



Potere dell’immaginazione certo, da alimentare costantemente con un fondamentale lavoro, serrato e metodico. Perché è quello che innesca le intuizioni. Come sosteneva il fisico tedesco Max Planck, anche lo scienziato deve avere una immaginazione vivida e intuitiva per generare nuove idee. E come teorizzava Albert Einstein secondo cui addirittura l’immaginazione è più importante della conoscenza.

Ecco come si fa, da oltre vent’anni, a superarsi ogni volta e a far sì che questa epica sequenza di preparazioni dotte, appaganti e spiazzanti si erga a vera e propria semiosfera, come la intendeva il semiologo Jurij Lotman, una rete di significati e valori culturali, espressione di una identità granitica. Che inverte integralmente la definizione di “alta cucina” in “cucina alta” e le appropria un significato più intenso e pregno, multidimensionale, dove lo chef diviene portatore di saperi, attraverso una narrazione dal registro erudito. Si dedica alla valorizzazione degli item culturali, dei giacimenti e dei tesori della sua terra, meritevoli di essere studiati, documentati e talvolta protetti. Producendo e primeggiando nello sviluppo di valore attraverso quella avanguardia che farà da basamento alle creazioni di numerosi altri colleghi in futuro.

Arrivati a questo punto, probabilmente la partenza ai tavoli di Uliassi non può più cambiare, un po’ come le sfilate di moda non possono più chiudere senza la camminata di ringraziamento dello stilista, perché tutti se lo aspettano, il percorso di Uliassi non può aprire se non con il wafer di nocciole, fegato grasso e shot di kir royal. A ruota arrivano l’irresistibile burro all’aringa affumicata e l’olio al rosmarino bruciato, con cui divertirsi intengingendoci i panificati. Come i grissini e mais soffiato, il pane ai grani antichi, il pane alle alghe, la pizza al formaggio e i crackers con semi.

Le seppie sono scottate al punto da rimanere croccanti, umamizzate da un olio di guanciale e con il loro fegato a picconare di amarognolo. In accordo con la terrosità della bietola di accompagnamento, condita con miele, colatura di alici e limone, che trova la sua sponda crunch nella brunoise dei suoi gambi.

Come le seppie, anche il riccio di mare ha la paternità di Peppino Merlino e Mauro Paolini. È ghiacciato e arriva alle papille all’istante con lo shock gelato, per poi, nell’adattamento termico, liberare l’amaro e lo iodio, con i semi di fico a punteggiare di dolcezza, quasi ammaestrati nell’intervento equilibratore millimetricamente puntuale.

Lo switch mare-terra è immediato, “come se fosse arrivato il temporale sulla pineta ad amplificarne sentori e profumi”, racconta Uliassi. Il cardoncello, per antonomasia evocatore di terrosità, sia per sapore che per origine, insieme all’amaro del luppolo, alla dolcezza leggermente acidula di more e mirtilli essiccati, al sapore quasi nocciolato del pinolo si eleva ad ambassador di una sinestesia boschiva. Qui l’intervento è di Luciano Serritelli Andrea Merloni.

Ripescaggi dal LAB 2022, le ostriche Gillardeau elettrizzate con un succo di aringa, un pesto di rucola grigliata, borragine e limone marinato. 

Le lumache, nei LAB felicemente imprescindibili, sono immerse in un diorama di vegetali pungenti, come i friggitelli, interi e in spuma, peperoni arrostiti, olio di origano ed erbe soffiate.  

L’olio di alloro e il rafano arginano solertemente la proverbiale egemonia grassa dell’anguilla gorese, che viene cotta alla brace dopo essere stata affumicata, l’aceto di lamponi acidifica in parallelo con la dolcezza delle albicocche sotto sale.

Oltre alla coppia Serritelli-Merloni, il copyright della pasta all’assassina va riconosciuto,  in parte, a Checco Zalone, che dopo aver pranzato alla Banchina di Levante ha preso l’iniziativa di suggerire a Uliassi di pensare a una sua personale codifica della specialità barese. Lo chef, insieme a Mauro Paolini e Peppino Merlino, ha lavorato su un fusillo dell’autoctono pastificio Massi, cuocendolo trentaquattro minuti, venti più della cottura classica. Per poi fare un pit stop in padella e successivamente in salamandra, per ottenere la superficie croccante e l’interno morbido. Il peperone rosso impersona il pomodoro di una ipotetica arrabbiata, a cui si aggiunge la ‘nduja, olio di ajowan, che ricorda il cumino, per una piccantezza garbata, un tabulè di aglio tostato a cristalli e gambi di sedano per appicciare una freschezza che deflagra con una foglia di shiso.

Sempre Andrea Merloni e Luciano Serritelli, in questo caso uniti in un contesto hard-core, starring rognone di pecora e gambero rosso, speculari nelle note feniche. Su cui intervengono olio di rosmarino, limone, e soprattutto la noce moscata, strattonandole con vigore e amplificando lo iodio. Complice anche la spuma di acqua di mare.

L’amaro fumé del carbone e quello tendente al sapido delle olive essiccate gareggia con l’aroma della vaniglia nella creazione di enfasi gustativa intorno all’agnello. In accompagnamento Yuri Raggini e Andrea Paris hanno pensato a una provvida cipolla croccante, con ciliegie ghiacciate ad aggiungere intensità e una sponda lievemente acidula e nocciole.

Quella che semplificando viene definita granita al limone è in realtà solo il primo strato, vivacizzato da un lieve spruzzo di rum, sotto una passata di crema al limone di Sorrento, una di sorbetto e sul fondo una piccola base di liquirizia che potenzia l’effetto agrumato.

Continua il lavoro del pastry chef Mattia Casabianca nel riarrangiare grandi classici della pasticceria, quest’anno è la volta della Saint Honoré. Di genesi ottocentesca, ma furoreggiante perlopiù fra i ‘70 e gli ‘80 a tutti i gradini della scala socio-gastronomica, dalle alzate in argento dei ristoranti blasonati, alle scatole di polistirolo della grande distribuzione dei surgelati. Casabianca parte da una base di pasta sfoglia, con una crema alle nocciole, parfait al rum, crema chantilly e un cremoso al cioccolato e caffè.  Una crema di arancia all’Ocoo si prodiga nell’ottimizzare note amare e i mini bigné deliziano con una favolosa crema alla liquirizia.

La mitologica scatola bianca della piccola pasticceria, ancora fatica a trovare eguali nel panorama gastronomico e contiene:
Cubo bianco con gelato all’erborinato, Pasta di albicocca e cardamomo verde, Cioccolatino alla ciliegia e caffè, Dacquoise al pistacchio, Lampone ghiacciato, basilico, maraschino, Crumble al chocolat pétillant


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