Materia di Davide Caranchini. Gusto e sostanza avant-garde edition

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Videointervista allo chef del ristorante Materia di Cernobbio, sperimentazioni sull’essenza del gusto, ricerca dell’inesplorato e conduzione ineccepibile del business


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Ciò che colpisce all’istante del ristorante Materia, come del resto del suo chef Davide Caranchini, è la vocazione anti-piaggeria e l’avversione a fronzoli e infiorettature. L’essenzialità, come una sonda che conduce al profondo, alla natura vera delle cose, pervade totalmente l’atmosfera di questo locale di Cernobbio e la cucina del trentatreenne cuoco comasco. Una affascinante antitesi allo stile mellifluo e romantico di ville e giardini di cui trabocca la cittadina sul Lario, che ha fatto da fondale alle scorribande, amorose e non, di teste coronate, sultani e divi del cinema. 



Sono passati sette anni da quando quattro ragazzi venticinquenni si lanciarono in questo progetto ristorativo, curandone personalmente la genesi di ogni dettaglio, dal concetto, ai lavori di restauro. Sicuramente un’azione dirompente per le persone del luogo, che passando da via Cinque Giornate si affacciavano incuriosite, ignare di cosa potessero combinare questi giovani mentre imbiancavano gli spazi di un ex ristorante asiatico. Ma le idee, queste entità astratte, quasi spirituali, dimoranti nel trascendente, quando si abbinano a pragmatismo e intelligenza producono accadimenti di prodigiosa concretezza. Dopo due anni dall’apertura arriva la Stella Michelin, l’anno successivo The World 50 Best Restaurants include Materia nella 50 Best Discovery, dove sono presenti i talenti emergenti segnalati dagli ispettori della nota classifica. L’intenzione che aveva dato vita al progetto inizia e materializzarsi, e non solo per mezzo del nome nell’insegna, un nuovo concept, moderno e cosmopolita, si sta affermando in quest’area, famosa per il lusso e lo sfarzo, che attualmente si stanno dirigendo spediti verso lo sfioritura. Davide viene da esperienze di altissimo livello, collezionate dopo l’alberghiero Gianni Brera di Como, come Le Gavroche di Londra, il Noma e l’Enoteca Pinchiorri, come racconta nel video e fin da subito coltiva il desiderio di avere un ristorante proprio.

E il sogno si realizza con l’incontro della compagna Ambra Sberna, responsabile di sala, insieme al fratello Marco, mentre il loro cugino Luca, esperto sommelier, si occupa della cantina. È un team estremamente unito, in cui tutti sono accomunati da una determinazione, una maturità e un fervore per il lavoro che raramente si trovano. Qualità che consentono loro anche di reagire con una forza immane, non comune, alla morte prematura di Marco, che perde la vita, a soli trentatré anni, in un drammatico incidente stradale nel 2021. 

I progetti futuri sono ambiziosi, una nuova sede è in fase di ristrutturazione, l’identità del percorso culinario e delle idee va definendosi in modo sempre più preciso. L’obiettivo è opposto al compiacere tassativo o all’assecondare le correnti che si intensificano in tendenze, è quello di rimuovere tutto ciò che non è necessario, come suggerisce la parola “essenza” in cui è implicita l’azione di togliere per lasciare gli elementi indispensabili a garantire l’esistenza dell’idea o del concetto. E sebbene la ricerca del consenso non sia contemplata, esso arriva, e pure copioso, arrivano premi e riconoscimenti a suggellare la presenza del talento conclamato di Caranchini e della squadra del Materia. Che lo irrorano costantemente di volontà e impegno massicci, l’unica modalità scientifica atta a renderlo un valore reale.

L’incipit è foriero di solidità del gusto avant-garde edition, con una tartelletta di koji, orzo fermentato, lievito, limone, caviale di aringa, erba cipollina; una cialda di patate con burro e anguilla affumicata, gel di cipolle rosse, foglie di cerfoglio. Una carbonara di lago, con crema di uovo, trota disidratata, pecorino, pepe, un crème caramel di alga kombu, soia, wasabi.
Il pane alla farina di farro e i grissini all’olio  sono da guarnire con burro salato e montato

La consistenza rotonda e avvolgente della trota salmonata, marinata, si fonde con quella ancor più suadente del midollo, dal sentore leggermente affumicato; la scorza di limone interviene a spezzare con una acidità amarognola, mentre il caviale e la lattuga di mare, insistono sulla sapidità iodata.
Il retrogusto leggermente dolce della tartare di cervo della Val d’Intelvi si connette con quello più intenso dei  ricci di mare, appoggiati su un pesto di alghe, pinoli e bergamotto che ne devia i toni su frequenze amare e acide. 

Deflagrante il tataki di capriolo, appena scottato nella parte esterna e di fatto crudo all’interno, immerso in un brodo di fave di cacao dall’amaro aromatico.
L’animella di vitello, scottata su un lato miscela il suo ricordo di latte con un succo di carota fermentata addizionato di un estratto di semi di carota, finalizzato a produrre un sapore agrodolce senza nessun altro ingrediente al di fuori della carota.

L’insalata alla griglia è una fantasmagoria di amari viranti ai toni del fumo e della terra, con il cavolo riccio cotto al barbecue, il sedano rapa tostato, la zucca cotta e marinata con ingredienti del carpione. Il tutto legato in un equilbrio chirurgico da una salsa “di bosco”, una sorta di fondo bruno totalmente vegetale, con funghi, cortecce, tartufo nero, frutti rossi e licheni, per potenziare l’umami, e una maionese di olio di noci.
Un autentico piatto del recupero, oltre che di un gusto perfettamente saturo, i ravioli di selvaggina, il cui ripieno è un composto cremoso ottenuto da tutti i resti e dalle interiora della selvaggina del menu “The Wild side”, quindi cervo, cinghiale, lepre; vengono poi tuffati in un brodo di bosco e olio di rosmarino.

Le linguine Felicetti sono condite con burro e garum di agone; Caranchini compie uno studio costante e approfondito sul pesce di lago, per arrivare alla miglior via di valorizzazione possibile. Vengono poi spolverizzate con amchur, una spezia indiana, polvere di bucce di mango. 
Anche per il delizioso lucioperca si interviene in modo sostenibile, con una salsa di accompagnamento ottenuta dalla lavorazione delle lische del pesce, al quale si aggiunge caviale per maggior incisività e un pesto di agrumi e plancton, sedano rapa, lattuga di mare che accentuano di acidità.

Incontro mirabile quello del colombaccio con la bagna cauda, dove con eleganza si insinua l’amaro dell’emulsione di cicoria, la cicoria ripassata e il pepe voatsiperifery. Servito in tandem con il crostino imburrato che sorregge il filettino di colombaccio marinato nella colatura di alici, anche per assonanza con la sua forma che ricorda un’alice, e tartufo nero.

Una raffinatissima crema pasticcera ai funghi porcini, prepara al dessert vero e proprio, il sorbetto al frutto della passione introduce la nota dolce, insieme allo stacco termico, e il topinambur croccante, con carciofi, solletica il morso.

L’Omaggio a Milano è un gelato al midollo con una spuma di zafferano, che sostiene una cialda croccante sulla quale viene grattugiata scorza di limone e midollo, dopo essere stato cotto e successivamente ghiacciato.
Durante un viaggio in Colombia lo chef ha incontrato dei produttori di cioccolato da cui si rifornisce tutt’ora e la sua volontà è quella di mantenerlo più integro possibile perché a emergere sia l’essenza del suo sapore. In Ricordo di un viaggio in Colombia a un cremoso di cioccolato al 70% appoggiato a un pan di Spagna al cacao, si aggiunge un sorbetto al cioccolato all’80%, chantilly e gel di caffè, cialda al cioccolato. Tutto a base acqua per preservare l’intensità originaria del gusto. 

Di contorno al caffè, gelée al mandarino, bignè craquelin alla nocciola, sassi di cioccolato bianco e pepe nero.


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