Matteo Lorenzini chef dell’Osteria di Passignano dei Marchesi Antinori
, , Magazine

Una profonda padronanza delle tecniche, standard appresi in un tre stelle Michelin, determinazione inscalfibile e fulgido talento tornano in Toscana con lo chef senese


Condividi:
Tempo di lettura:
6 minuti
Iscriviti alla newsletter per essere sempre aggiornato
Sostieni popEating


“Non ho mai nascosto di voler tornare in Italia, e ancor di più in Toscana – afferma Matteo Lorenzini quando lo incontriamo e apprendiamo del suo ritorno, tanto atteso da tutti gli appassionati di cucina. “Ed entrare a far parte di un gruppo leggendario come Marchesi Antinori, mi onora immensamente” ma soprattutto gli ha indotto una sovrapproduzione di idee e stimoli per risequenziare alcuni concetti della cucina italiana.

Del resto stiamo parlando di una famiglia con una continuità di ventisei generazioni nel mondo del vino, che parte dal 1385 quando Giovanni di Piero Antinori si iscrive alla corporazione minore dei vinattieri, come racconta in una intervista al Corriere il marchese Piero Antinori. Avido lettore di libri di storia e di economia rinascimentale, studioso delle vicende che hanno coinvolto i suoi avi, svoltesi inevitabilmente fra scenari vitivinicoli, ha scatenato una mutazione radicale della storia enologica italiana. Negli anni settanta, il suo intuito eversivo scardinò completamente i dettami vinicoli dell’area del Chianti, avviando un processo di rinascimento dei vini italiani con Tignanello e Solaia, a cui poi numerosi altri produttori hanno aderito. Questa propulsione innovatrice, diffusa a tutta la famiglia, ora sono le figlie Albiera, Allegra e Alessia a guidare la società, ha influenzato profondamente chef Lorenzini nella decisione di accettare questo nuovo ruolo. “Pensando alla rivoluzione accaduta nel 1971 con i vini” confessa il nuovo chef “mi piace sognare che oggi, in questo contesto, poco lontano dalla Tenuta Tignanello, lo stesso possa accadere alla cucina.”  



E noi che lo conosciamo aggiungiamo che Matteo Lorenzini farà di tutto perché accada.

Dopo tre anni all’estero, due trascorsi a pochi passi da Notre-Dame, a seguire il lancio di Cucina Mutualité, definita da Le Figaro “l’ambasciata italiana dai colori pop, dove Alain Ducasse, insieme allo chef toscano, propone i suoi culinari colpi di fulmine transalpini”. E un anno al fianco di Jean-Philippe Blondet al ristorante tristellato del The Dorchester di Londra.  Da pochi giorni Matteo, affiancato da Nicola Damiani, ha preso possesso della cucina dell’Osteria di Passignano, con la sua immane conoscenza di tecniche e materie prime, gli standard da tre stelle Michelin, una determinazione inscalfibile e il suo fulgido talento. Ora in una prodigiosa fase evolutiva orientata al vegetale “senza rinunciare alla gourmandise – ci rassicura. “In quest’ultimo anno l’alta cucina ha confermato uno stop alla proposta di carne, per concentrarsi prevalentemente sullo studio di legumi e pesce. Ed è un approccio che condivido in pieno, su cui ho molto sperimentato negli ultimi mesi”. 

“Il pensiero a cui sto iniziando a dare forma qui a Passignano – racconta Lorenzini – ha l’obiettivo di far scaturire una sensorialità rotonda, florida e appagante, solitamente appannaggio dei grassi, da materie puramente vegetali, facendo leva sul rimontaggio di tecniche e accostamenti. Lo stesso signor Ducasse ci allertò sul rischio di scimiottare altre cucine, nell’applicazione di nuove pratiche, spesso di tendenza, mentre la chiave sta nell’apprendere per poi passare quanto assimilato al setaccio della nostra identità.”

Prendiamo posto a un tavolo del dehors affacciato alla Badia, che verrà completamente restaurato e ampliato. “Il benvenuto lo diamo con l’olio” ci racconta riempiendo l’apposito bicchierino Matia Barciulli, da vent’anni ai vertici del food & beverage del gruppo Antinori, primo chef a portare la stella Michelin all’Osteria, ideatore de “Il Magnifico” il premio che del 2013 celebra le eccellenze olearie europee. “ L’idea è di presentare un extravergine in assaggio, da degustare puro o con i nostri pani, ogni giorno diverso, per far scoprire agli ospiti quanto è sfaccettata la scena europea dell’olio di altissima qualità”. Ci viene servito Knolive Epicure, un olio andaluso, di Cordoba, già pluripremiato a livello mondiale. Dall’intenso e persistente profumo di erba appena tagliata, che si rarefà notevolmente nel gusto per virare verso la foglia di pomodoro e chiudersi con un leggerissimo amaro.

Un delicato carpaccio di dentice, marinato agli agrumi, si appoggia su scaglie di kiwi giallo, di una acidità smussata rispetto al verde, e che si distorce piacevolmente verso l’amaro de cetrioli anch’essi marinati e proposti anche in gelatina. Il tocco di croccantezza sapida la donano quella delizia dei piccoli gamberi di fascina.

La concretizzazione del concetto “vegetale voluttuoso” è tutta in questo ragù di verdure che arriva ai recettori gustativi come una lasagna e se non fosse per la masticabilità più vigorosa di ortaggi e orzo croccante, sarebbe un sugo di carne tout court. In cui il ruolo della spuma d’orzo è quello di clone della besciamella. 

Una fetta di pane morbido, appena tiepido, con all’interno un trancio di ricotta avvolta dal profumo che il tenue calore del lievitato fa sprigionare è di una piacevolezza che destabilizza pensandola originata da tanta semplicità. Ma con il ruolo ben preciso di riportare la percezione del gusto a un tono neutro, per accogliere le successive portate.

Per gli asparagi verdi e bianchi fermentati, un accompagnamento di magnifiche spugnole in una salsa di mandorle che conturba per la cremosità, così pannosa in totale assenza di panna.

Piatto dalle molteplici tecniche, di una complessità inversamente proporzionale all’immediatezza della bontà che arriva con l’assaggio. Ispirato al Mirza Ghasemi, la salsa di melanzane iraniana. Qui si ricompone, piena e cremosa, nel perimetro di una melanzana perlina e si accompagna a pomodori confit, pomodori verdi, sciroppo di pomodoro e aglio rosa. 

Goduriose le setose tagliatelle di farro con seppie appena scottate in zimino, servite con una tartare di seppie e piselli crudi presentata su un grazioso osso di seppia. 

L’agnello da latte dell’Amiata è strepitoso, in condimento di santoreggia e acetosa, con verdure di primavera dell’orto e il tocco folgorante dei passatelli di grano arso al jus d’agnello, fermentato come un garum.

I dessert mantengono il livello di golosità che ci si aspetta, senza esasperazioni avveniristiche che spesso esaltano concetti a discapito dell’acme che merita la fine del pasto. Qui è tutto in linea con le precedenti uscite e ben calibrato, come nel cioccolato, pralinato e amarene e nel cremoso di ricotta, fragole nature, incredibilmente dolci, con mascarpone al fieno.

Il cerchio si chiude tornando all’olio, con i tartufini e il gelato all’extravergine che arrivano con il caffè.


Condividi:

Qualcosa di simile