L’audacia del minimalismo di Antonio Guerra al Vitique di Greve in Chianti
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What you see is what you see. Rigore fuori dal comune, creatività per sottrazione per escludere ciò che è superfluo all’espressione di una purezza gustativa


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L’essenzialità richiede sfrontatezza e lo chef Antonio Guerra del Vitique di Greve in Chianti la sfodera nella sua declinazione più di classe. 
Una estetica la sua che presuppone ricerca minuziosa e una purificazione dei sapori, perché, sembra paradossale, ma il minimalismo è appannaggio di grande audacia. Si tratta di un linguaggio che implica un rigore non comune, grande precisione, conoscenza delle materie e notevole attitudine alla sperimentazione. In questo ha fatto scuola sicuramente l’esperienza con Luigi Taglienti al lume di Milano, uno dei mentori dello chef, insieme a Giancarlo Morelli e Antonello Sardi. Nelle preparazioni di chef Guerra non c’è mai qualcosa che vuole essere qualcos’altro, o che si camuffa per strappare un sibilo di stupore. Al Vique si palesa una cucina che non simula di essere, ma è. What you see is what you see come recita la sintesi della filosofia di  Frank Stella, padre del minimalismo. Una delle correnti artistiche più austere ma che suscita sempre una poderosa meraviglia. Procedere quindi per sottrazione, escludere ciò che è superfluo all’espressione di una purezza sensoriale. La cui forza seduttiva si sviluppa attraverso una alternanza cangiante di sapori bene individuabili, incroci di temperature e tessiture di consistenze. Quella di Antonio è una visione fatta di ordine e razionalità che sul passe sortisce un risultato estremamente appagante sia nell’accezione armonica che nei contrasti. E il lavoro che sostiene un approccio di questo tipo non è affatto semplice, si sostanzia in una approfondita esplorazione delle materie prime, che si trasformano in piatti secondo regole compositive determinanti. La cui importanza è inversamente proporzionale al numero di elementi che rientrano nella preparazione, facendo leva su una ampia conoscenza della cultura gastronomica per eludere il déjà vu.

Gli amuse-bouche si articolano fra un bignè di caprese, ripieno di mozzarella di bufala e pomodoro fermentato; un piccolo pain brioche spalmato di burro, con anguilla e cipolla rossa. Una crocchetta di guancia di manzo, apostrofata da una salsa affumicata, sul modello barbecue. Una spuma di patata cela una crema di riccio punteggiata da briciole di pane al prezzemolo.



Il gambero rosso crudo è servito su una estrazione di prezzemolo, con le intermittenze croccanti del pane crunchy e delle fave. I petali di tagete sono leggermenti aromatizzati all’olio alla cenere, dal sentore affumicato. Si accompagna a un calice di acqua di pomodoro da sorseggiare per chiudere l’ouverture.

Ai pater rigati Fabbri viene accostata una tartare di seppia, con una spruzzata di polvere di salvia che devia verso l’amaro e un gel di limone per le sottili sferzate acide. L’abilità di lastricare il comfort di raffinatezza.

Come per i cappelletti farciti di faraona, dove l’umami del ripieno è addolcito da una voluttuosa crema di pecorino, che sfuma nell’amarognolo vegetale di camomilla e polline.

Una tecnica, il tataki, introdotta due secoli fa dai samurai, racconta la leggenda, che prevede una cottura veloce in padella con successiva marinatura nell’aceto e un condimento di sesamo o zenzero. Qui Guerra l’ha applicata alla ricciola, appoggiata poi su una salsa di peperone giallo affumicato, in accompagnamento un ravanello fermentato e verdure di stagione. In un bel menage di acidità, declinate in diversi toni e sempre con una allure di fumo, nota fra le predilette dello chef.

Il piccione viene elaborato giocando con diversi gradi di cottura e temperature, quindi il petto e la coscia cotti alla brace, serviti con scalogno e inebriati dalla balsamicità de una salsa di mirto. Il filetto viene lasciato crudo e posto come decorazione di un “rocher” preparato con il fegatino del pennuto, ricoperto di una granella di nocciola. Una concisione di energica nitidezza.

A instradare il dessert un sorbetto di frutto della passione con il tocco di clorofilla aromatica del gel di basilico

Il dessert è un ri-arrangiamento della panna cotta, preparata con latte di capra, quindi più decisa nel sapore, leggermente sterzante verso il sapido, con lamponi potenziati nel gusto da una crema di frutti rossi, crumble di cioccolato.

Le friandises dell’arrivederci, maniacalemente precise nelle geometrie e nei toni si presentano partendo da una pralina al cioccolato bianco e cocco, una gelatina all’arancia, una macaron alla vaniglia, e un krapfen alla crema


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